Oggi copio e incollo l'articolo di Alberto Mattioli sulla Stampa (22 settembre 2014)
Da leggere integralmente
E poi piangere
Muovere
la testa a ritmo? Va bene se c’è l’indennità
Muti
abbandona l’Opera che affonda. Magari servirà finalmente ad
accendere i riflettori mediatici su quello che tutti sanno e nessuno
ha il coraggio di dire: con queste regole e con questi sindacati, i
teatri lirici italiani sono ingestibili. Mai come all’opera le
tutele si sono trasformate in privilegi, il precedente è diventato
legge, l’abuso abitudine. Fellini, che conosceva i suoi polli,
aveva già capito e raccontato tutto in «Prova d’orchestra». Ma
come sempre in Italia la
realtà supera la fantasia e l’elenco delle follie è più lungo
dell’«Anello del Nibelungo». Per carità: formalmente, tutto è
in regola, come da comma due dell’articolo tre. Ma gli effetti sono
devastanti.
Qualche esempio? Alla Scala, ultima stagione, sono arrivati «Les Troyens» di Berlioz coprodotti con il Covent Garden di Londra. Però a Milano c’era un intervallo di più, perché qualche regola idiota impone che non si possano accorpare più atti se la loro durata eccede quanto stabilito dal contratto. Inutili le richieste dal podio di un esterrefatto sir Antonio Pappano. Risultato: l’opera, già lunga di suo, è diventata interminabile. Invece la prima del balletto «Romeo et Juliette» di Sasha Waltz, sempre alla Scala, nel 2012 saltò del tutto. I coristi, che dovevano muovere la testa a ritmo di musica, chiesero l’indennità da «prestazione speciale», i ballerini una gratifica perché il palcoscenico era stato leggermente inclinato dallo scenografo. Il sovrintendente Stéphane Lissner disse no e lo spettacolo non si fece.
Poi c’è il problema del freddo. Si ricordano proteste e assemblee, dal Carlo Felice di Genova al Massimo di Palermo, perché in buca la temperatura era di qualche grado più bassa di quanto previsto. A Palermo i professori si presentarono polemicamente in cappotto (a Palermo, non a Stoccolma). Le indennità sono un capitolo a parte. Indennità lingua per i coristi perché disgraziatamente Wagner o Bizet hanno avuto la cattiva idea di non scrivere in italiano, indennità frac per i professori d’orchestra, indennità umidità se lo spettacolo è all’aperto, indennità video se viene ripreso. All’Arena c’è l’indennità arma, giusto compenso alla fatica di dover portare l’alabarda nel «Trovatore» o lo scudo in «Aida». Un’estate il regista di «Nabucco», Denis Krief, decise che ne aveva abbastanza e fece irrompere nel tempio di Gerusalemme degli assiri perfettamente disarmati. L’Opera di Roma paga (cioè, noi paghiamo) un’«indennità Caracalla» anche agli impiegati, che alle Terme di Caracalla, sede della stagione estiva, non ci mettono mai piede né mai ce l’hanno messo.
Del resto, il contratto nazionale degli orchestrali prevede 28 ore settimanali di lavoro, e tanta gente in permesso artistico da unteatro e la trovi poi a suonare in un altro... Qui davvero o si cambia o si muore. Lo dimostra il fatto che alla Fenice di Venezia e al Regio di Torino, i due teatri italiani migliori, grazie a dei dipendenti responsabili si è riusciti a fare quel che sembrava impossibile: aumentare la produttività a livelli europei.
L’Opera di Roma è sempre stata il peggio del peggio, altro che «vertice della produzione lirica mondiale» come da comunicato mitomane che annuncia l’addio di Muti (o i pezzi dei giornalisti di corte sul «miglior teatro italiano», sì, ciao core). Il fondo lo si toccò a una prova della «Valchiria» diretta dal grande Giuseppe Sinopoli in un teatro pieno di studenti. Alla fine, Sinopoli annunciò ai ragazzi: «Adessovii facciamo sentire il tema della spada». Servivano pochi secondi, ma si alzò un sindacalista e disse: «Maestro, la prova è finita». Sandro Cappelletto, che era in sala, vide Sinopoli spezzare la bacchetta per la rabbia. Del resto nella capitale la musica «è» Santa Cecilia, non certo l’Opera. All’Opera facciamoci un parcheggio.
Qualche esempio? Alla Scala, ultima stagione, sono arrivati «Les Troyens» di Berlioz coprodotti con il Covent Garden di Londra. Però a Milano c’era un intervallo di più, perché qualche regola idiota impone che non si possano accorpare più atti se la loro durata eccede quanto stabilito dal contratto. Inutili le richieste dal podio di un esterrefatto sir Antonio Pappano. Risultato: l’opera, già lunga di suo, è diventata interminabile. Invece la prima del balletto «Romeo et Juliette» di Sasha Waltz, sempre alla Scala, nel 2012 saltò del tutto. I coristi, che dovevano muovere la testa a ritmo di musica, chiesero l’indennità da «prestazione speciale», i ballerini una gratifica perché il palcoscenico era stato leggermente inclinato dallo scenografo. Il sovrintendente Stéphane Lissner disse no e lo spettacolo non si fece.
Poi c’è il problema del freddo. Si ricordano proteste e assemblee, dal Carlo Felice di Genova al Massimo di Palermo, perché in buca la temperatura era di qualche grado più bassa di quanto previsto. A Palermo i professori si presentarono polemicamente in cappotto (a Palermo, non a Stoccolma). Le indennità sono un capitolo a parte. Indennità lingua per i coristi perché disgraziatamente Wagner o Bizet hanno avuto la cattiva idea di non scrivere in italiano, indennità frac per i professori d’orchestra, indennità umidità se lo spettacolo è all’aperto, indennità video se viene ripreso. All’Arena c’è l’indennità arma, giusto compenso alla fatica di dover portare l’alabarda nel «Trovatore» o lo scudo in «Aida». Un’estate il regista di «Nabucco», Denis Krief, decise che ne aveva abbastanza e fece irrompere nel tempio di Gerusalemme degli assiri perfettamente disarmati. L’Opera di Roma paga (cioè, noi paghiamo) un’«indennità Caracalla» anche agli impiegati, che alle Terme di Caracalla, sede della stagione estiva, non ci mettono mai piede né mai ce l’hanno messo.
Del resto, il contratto nazionale degli orchestrali prevede 28 ore settimanali di lavoro, e tanta gente in permesso artistico da unteatro e la trovi poi a suonare in un altro... Qui davvero o si cambia o si muore. Lo dimostra il fatto che alla Fenice di Venezia e al Regio di Torino, i due teatri italiani migliori, grazie a dei dipendenti responsabili si è riusciti a fare quel che sembrava impossibile: aumentare la produttività a livelli europei.
L’Opera di Roma è sempre stata il peggio del peggio, altro che «vertice della produzione lirica mondiale» come da comunicato mitomane che annuncia l’addio di Muti (o i pezzi dei giornalisti di corte sul «miglior teatro italiano», sì, ciao core). Il fondo lo si toccò a una prova della «Valchiria» diretta dal grande Giuseppe Sinopoli in un teatro pieno di studenti. Alla fine, Sinopoli annunciò ai ragazzi: «Adessovii facciamo sentire il tema della spada». Servivano pochi secondi, ma si alzò un sindacalista e disse: «Maestro, la prova è finita». Sandro Cappelletto, che era in sala, vide Sinopoli spezzare la bacchetta per la rabbia. Del resto nella capitale la musica «è» Santa Cecilia, non certo l’Opera. All’Opera facciamoci un parcheggio.
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