martedì 2 dicembre 2014

"El quadreto de san Ieronimo" ovvero Antonello , sintesi tra sud e nord

Esiste un corrispettivo visivo ad un'opera letteraria?
O meglio, perché questo è il caso, esiste un corrispettivo letterario ad un dipinto?
Ecco confezionata l'analogia!

Venuta la sera, mi ritorno a casa ed entro nel mio scrittoio; e in sull'uscio mi spoglio quella veste cotidiana, piena di fango e di loto, e mi metto panni reali e curiali; e rivestito condecentemente, entro nelle antique corti delli antiqui huomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo che solum è mio e ch’io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro e domandarli della ragione delle loro azioni; e quelli per loro humanità mi rispondono; e non sento per quattro hore di tempo alcuna noia, sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte: tutto mi transferisco in loro
Niccolò Machiavelli, lettera a Francesco Vettori, 1513

Quando al liceo mi ero imbattuta in questa splendida lettera, associavo lo studio di Machiavelli a quello magistralmente dipinto da Antonello nel 1475, una quarantina di anni prima.

Questo piccolo olio su tavola (cm. 46 x 36,5) , acquistato nel 1894 da lord Northbrook ed oggi alla National Gallery, un tempo fu visto  a  casa di Antonio Pasqualino a Venezia dal mercante Marcantonio Michiel. Era il 1529 e  la cronaca del Michiel  lo descrive nei minimi dettagli.

Il pittore che dal Sud era giunto a Venezia, portò nella città lagunare la sintesi tra il realismo fiammingo- perfettamente rappresentato grazie alla nuova tecnica ad olio- e lo spazio geometrico ed ordinato, nuova scoperta toscana.
I colori? Caldi, brillanti, così luminosi da rendere visibili anche i dettagli più impensabili, come le venature del legno del mobile, come la veste purpurea che nelle pieghe si tinge di viola, come le upupe che intravediamo posate ed in volo tra le bifore.

Solitamente il santo non veniva raffigurato nello studio, ma eremita nel deserto.
La prima volta che san Girolamo è in un interno - e senza barba come qui- è nel piccolissimo olio su carta trasportata su tavola , del maestro van Eyck

Jan van Eyck, San Girolamo, cm.20,6 x 13,3, Detroit Institute of Arts
Proprio queste caratteristiche hanno fatto supporre che l'uomo qui raffigurato  sia il ritratto di un uomo illustre nei panni del santo, e chissà che non sia anche il caso della tavoletta di Antonello...

Prima di osservarla più da vicino, vale la pena dare un rapido sguardo all'opera di Colantonio, maestro di Antonello a Napoli
 Colantonio, san Girolamo ,1444 tecnica mista su tavola, cm. 125x150, Napoli, Museo di Capodimonte
Qui Colantonio ritrae il santo con l'aureola, mentre il cappello cardinalizio è ordinatamente posizionato sullo sgabello a sinistra. Il santo ha lasciato il libro aperto sul leggio, probabilmente la Vulgata e sta togliendo la spina dalla zampa del leone che, mansueto, guarda verso di noi.
I tanti oggetti disseminati sugli scaffali - nature morte fiamminghe- mostrano lo status del santo intellettuale.

E adesso...dentro l'opera di Antonello!

La scena è ambientata all'interno di una chiesa  gotica dalle volte a sesto acuto; a destra però le arcate rinascimentali, quasi una citazione della biblioteca di san Marco a Firenze dell'architetto Michelozzo, rendono lo spazio una sorta di "pastiche".
E noi osserviamo quello che accade all'interno da una sorta di porta finestra con un arco ribassato, che attesta la conoscenza da parte di Antonello dell'architettura catalana presente nella Napoli del Quattrocento.

In primo piano compaiono una pernice, un pavone, un bacile, "espressamente"dipinti (come il Michiel ci segnala).
I simboli? complicati ed ambivalenti.
La pernice è simbolo di verità : nei bestiari medievali la madre abbandona le uova deposte alla cova di altra pernice, ma una volta nati, i piccoli riconoscono la vera madre.
Il pavone è simbolo di Cristo: sempre nel medioevo si pensava che la carne dell'animale morto fosse immarcescibile, dunque legata alla morte e resurrezione.
Il bacile che contiene l'acqua è simbolo di purificazione.
Ma questi tre oggetti potrebbero avere un doppio: la pernice, secondo il profeta Geremia  è incarnazione diabolica  e rimanda alle tentazioni, il pavone alla vanità , così come il bacile usato come specchio.

E le piantine? Ecco il bosso, pianta funeraria e sempreverde (quindi l'immortalità) e il garofano, simbolo del divino amore.Sopra un cartiglio, finta firma del pittore.
Fuori lo spazio sacro a sinistra dalla finestra si apre un paesaggio fluviale con figurine ed un complesso architettonico, forse rimando alla città abbandonata dal santo per dedicarsi alle sacre Scritture.
 E dalle bifore si intravedono forse delle upupe, anche queste nei Bestiari medievali considerate uccelli sporchi perché compiaciuti delle immonde sozzure.
Ecco, le brutture del mondo restano fuori, come ai piedi degli scalini che portano alla scrivania il santo lascia le scarpe; per avvicinarsi al mondo "alto" delle Lettere, bisogna essere "puri" e nettarsi le mani con il telo appeso in alto a sinistra.
Proprio come faceva Machiavelli, che si spoglia di quella veste "cotidiana piena di fango e di loto"
Le analogie sono così stringenti che sarebbe bello pensare a  Nicolò Machiavelli perso davanti a questo piccolo dipinto privato.....

venerdì 21 novembre 2014

Bramante e la "Prospettiva" ,ovvero la magia !

Quando , nel 1478 Bramante mise mano e progettò la nuova chiesa di santa Maria presso san Satiro a Milano, dovette risolvere diversi problemi.
Come fare ad inglobale alla nuova chiesa voluta dalla confraternita di santa Maria l'antico sacello dedicato a san Satiro?
E come non stravolgere l'antico assetto viario, visto che il sacello di Satiro a pianta centrale era ortogonale alla via Speronari- di tracciato romano, mentre la via Falcone, via medievale, non è ortogonale e forma con essa un angolo acuto?
Guardando il problema da un'altra prospettiva!
E così il piccolo sacello ottagonale, che fino ad allora era , scenograficamente, punto di arrivo del luogo miracoloso ( nel 1242 era qui avvenuto il "miracolo"del sanguinamento del Bambino in
            Affresco duecentesco posto sull'altare E' l'immagine miracolosa che sanguinò
 braccio alla Vergine sul piccolo affresco posto in esterno un tempo ,su un muro in via Falcone, oggi sull'altare), diventa punto terminale : la piccola chiesa rettangolare diventa insomma transetto della chiesa a T , progettata da Bramante.
Ecco dunque la pianta ruotata di 90 gradi!

Pianta di santa Maria presso san Satiro - in alto a sinistra l'ottagono altomedievale dedicato al santo

Ma poiché Bramante non aveva spazio per realizzare l'abside, ecco la soluzione: l'illusionismo prospettico.
Il braccio del coro è simulato all'interno della chiesa con una finta volta in stucco , profonda solo 97 centimetri; entrando in chiesa nell'ampia navata voltata a botte non ci si accorge di questa finzione
ma mano a mano che ci si avvicina all'altare... ecco la magia!
Siamo a fine Quattrocento; l'invenzione della prospettiva (la finzione della prospettiva!), applicata sino ad ora alla pittura ed intesa come misura razionale dello spazio, ora è "reale.
Certo, Bramante nella creazione della sua prospettiva , impreziosita dal lapislazzulo e dalle foglie d'oro, ha in mente la Pala di Montefeltro di Piero della Francesca, ammirata nella sua Urbino

ma qui NON è più pittura, è spazio vero!

Sempre in questa piccola chiesa, Bramante costruì negli anni 1482- 86, la Sacrestia ,oggi Battistero ( nella pianta è il piccolo ottagono in basso a destra).
Lo spazio esiguo di cui disponeva Bramante è dilatato da un'alta cupola ottagonale che bagna di luce l'interno; le logge intermedie presentano una decorazione ottenuta in terracotta, materiale povero ed opera dello scultore Agostino de Fondulis.

 E sempre al cremasco de Fondulis si deve la commovente deposizione nel sacello di san Satiro.
Eccola!
                             Agostino de Fondulis, Compianto sul Cristo morto, 1482, terracotta
Espressiva come un'opera fiamminga, dal cromatismo caldo dato dal materiale povero e nel contempo prezioso, questo capolavoro "nascosto" ci racconta dei tanti gruppi scultorei sorti nelle terre padane in quegli anni (vedi Nicolò dell'Arca ,Guido Mazzoni o Antonio Begarelli, tutti emuli dell'"espressivo" Donatello.
Nicolò dell'Arca, Compianto sul Cristo morto, 1470/90 ca. , Bologna chiesa di s.Maria della Vita

Ma questa è ancora una volta un'altra storia





sabato 8 novembre 2014

Michelozzo e Alberti : la tipologia vincente del palazzo privato

Due famiglie, due architetti, due palazzi.
Una città, Firenze .
La prima famiglia è quella medicea.
Cosimo il vecchio rientra a Firenze dall'esilio nel 1436 e con lui torna Michelozzo, architetto che era stato allievo di Ghiberti (con lui aveva lavorato nel 1416 alla porta nord del Battistero) .
Cosimo ha bisogno di un palazzo di città ; Filippo Brunelleschi, l'architetto più innovativo aveva proposto al signore un progetto maestoso, moderno, forse "eccessivo.
Appena rientrato in città ,il capostipite della famiglia Medici ha bisogno di tenere un basso profilo.
Preferisce dunque rivolgersi al "suo" architetto, che già gli aveva risistemato la villa di campagna di Cafaggiolo, che già gli aveva costruito le ville di Careggi e di Fiesole.

                      Villa di Cafaggiolo, lunetta dipinta da Giusto Utens, (1599-1602)

E così in via Larga (oggi via Cavour) , al posto di case già di proprietà della famiglia Medici, si butta giù tutto e si costruisce un unico grande, razionale edificio. quello che oggi chiamiamo Palazzo Medici Riccardi.
La facciata. in pietra forte - un'arenaria resistente- è suddivisa in tre piani dalle cornici architravate a dentelli e mano a mano che si sale il loro aggetto è crescente e se in basso sporgono le panche di via , che avevano la funzione delle moderne panchine ma anche preservavano la facciata del palazzo dai colpi dei carri, in alto vi è un monumentale cornicione; l'effetto di chiaroscuro, di pieni e di vuoti è creato!
                                      La panca di via angolare di Palazzo Medici Riccardi
Il palazzo sostanzialmente è un semplice cubo che al centro si apre per ospitare il cortile porticato, ma per togliere pesantezza all'opera, Michelozzo decide una decorazione varia nei tre piani: al piano terra bugnato rustico, cioè conci di pietra non sgrezzati, al piano nobile bugnato classico e all'ultimo piano il muro liscio.
Le semplici bifore dei due piani superiori , per i fiorentini di allora erano parallelismo immediato con quelle di Palazzo Vecchio ; chiara è l'intenzione di Michelozzo di utilizzare l'architettura come rimando politico.
 

                        Una finestra di Palazzo Medici Riccardi con lo stemma della casata

                                      Particolare delle finestre di Palazzo Vecchio a Firenze
Cosimo il vecchio, in sostanza legittima il suo potere anche attraverso l'arte ; la Firenze comunale rivive nella Firenze quattrocentesca.
Anche il cortile interno è a tre livelli. Al piano terra un elegante colonnato ad arcate a tutto sesto- omaggio alla facciata brunelleschiana dello Spedale degli Innocenti - sorregge con grazia un architrave decorato con fregio a festoni (questo è intervento decorativo di Maso di Bartolomeo).

Le stesse bifore in facciata sono presenti nel cortile interno e qui il bugnato classico è ottenuto con la pietra serena. L'ultimo piano ha una loggia architravata con colonnine ioniche.
Un tesoro all'interno di palazzo Medici Riccardi? La cappella dei Magi con gli affreschi fiabeschi di Benozzo Gozzoli . Ma questa è altra storia...
Benozzo Gozzoli, particolare del corteo dei Magi nella cappella dei Magi di Palazzo Medici, 1459 ca,

E ora, Palazzo Rucellai.
La famiglia Rucellai , mercanti divenuti ricchissimi nel Trecento grazie alla scoperta di un lichene, l'oricello in questione,che tingeva di un rosso acceso le stoffe, era importante tanto quanto quella dei Medici ( e poi infatti un figlio di Giovanni sposò la sorella di Lorenzo il Magnifico) e dunque negli stessi anni necessitava di un "restiling" del palazzo. E così in via della vigna nuova l'architetto di famiglia Leon Battista Alberti propone un progetto di ristrutturazione dei vecchi appartamenti Rucellai, tanto che lo stesso Alberti aveva sminuito il suo lavoro, definendolo solo un decoro parietale e mettendo in pratica qui ciò  che nel suo De re aedificatoria  del 1452 aveva teorizzato : un edificio deve essere perfetto nelle proporzioni perché la bellezza non sta nelle grandi misure ma nella concinnitas .

Certo, il modello è palazzo Medici Riccardi per la ripartizione a tre piani e per il bugnato, qui tutto classico, ma Alberti qui mostra come la memoria dell'Antico può essere punto di partenza per progettare il nuovo (a proposito di progettare, Alberti diede il progetto a Bernardo Rossellino che lo eseguì tra il 1446 e il 1465. Ecco l'architetto moderno!)
I tanti soggiorni romani dell'architetto sono visibili nel modello del Colosseo; i tre piani del palazzo presentano lesene tuscaniche , composite e corinzie in cima, proprio come nell'anfiteatro romano. E l'elegante bugnato, con grossi conci squadrati poco aggettanti è colta citazione dal Mausoleo di Adriano.
Anche la decorazione  della facciata posta sopra le panche di via  è citazione dell'opus reticulatum  romano.

Il Palazzo, rispetto agli altri coevi era leggermente arretrato rispetto alla strada e leggermente più basso rispetto agli altri; la bellezza sta non nella grandiosità ma nella diversità. Di fronte inoltre era stata predisposta la Loggia, ideata dall'Alberti negli stessi anni del Palazzo ; sotto queste arcate si svolgevano feste e banchetti che rendevano partecipi i fiorentini dei lieti eventi della ricca famiglia.

La loggia, la facciata arretrata regalavano alla stretta via un piccolo slargo, quasi una piazza. 
Cinquecento anni dopo un altro grande architetto, Ludwig Mies van der Rohe, utilizzerà i medesimi stratagemmi per il suo Seagram Building a New York ; più arretrato, più basso degli altri grattacieli, spicca per la sua bellezza delle modanature in bronzo delle finestre che lo rendono, al tramonto, prezioso gioiello della grande mela.

                                       Mies van der Rohe ,Seagram Building a New York, 1958

Questa però davvero è altra storia...

domenica 2 novembre 2014

Historia Langobardorum a Pavia

« Furono chiamati così [...] in un secondo tempo per la lunghezza della barba mai toccata dal rasoio. Infatti nella loro lingua lang significa lunga e bart barba. »
Paolo Diacono, Historia Langobardorum, 789


L'arte longobarda, si sa, non esiste. Loro stessi erano ottimi artigiani, sapevano forgiare con maestria i metalli ( e forse gli oggetti più raffinati sono quelli di oreficeria) ,
Ecco, la raffinatezza non ha ragione di essere in Langobardia, popolata da uomini "ruvidi" e pratici.
Però questo abbandono delle forme classiche ha permesso una rinascita ed ha aperto le porte alla grande stagione del Romanico.
Ma questa è altra storia. Per ora qualche data
  • 569 Alboino conquista l'Italia . I modi di vivere (chiamiamola cultura, dai!) rimangono quelli longobardi. Unica "devianza" all'influenza romana è il cristianesimo ariano.
  • 572 Dopo tre anni di assedio Alboino conquista Pavia (antica capitale del regno gotico) ma subito dopo il re muore assassinato
  • 584 Diventa re Autari , che dà stabilità al suo popolo 
  • 590 Agilulfo re (fino al 616) . Il matrimonio con Teodolinda, vedova di Autari ma lei di religione cattolica, apre la strada all'alleanza col Papato. Il regno si divide in Regno del Nord (pianura padana, Tuscia ed Umbria) e Regno del Sud (ducati di Spoleto e Benevento)
  • 635- 652 Rotari re Il suo Editto è la prima raccolta scritta di leggi longobarde. Fu redatto in latino  nel monastero di Bobbio ed era valevole solo per la popolazione italiana di origini longobarde.
  • 712- 744 Il re è Liutprando. Cattolico, restauratore di chiese a Pavia, portò in salvo dalla Sardegna minacciata dai Saraceni, le reliquie di sant'Agostino a Pavia.
  • 774 Fine del regno dovuto al comportamento del Papato che preferì l'alleanza con i Franchi e Carlo Magno. Desiderio si arrende in questo anno all'assedio di Pavia.


Questa la storia in pillole.
E adesso .... a Pavia (ribattezzata Papia - prima era Ticinum -proprio dai Longobardi
Cosa è rimasto delle vestigia longobarde in città? Poco, quasi nulla. 
Eppure tante dovevano essere le chiese ed i monasteri fondati nei duecento anni del regno longobardo.
Una era santa Maria in Pertica fondata dalla regina Rodelinda nel VII secolo (e qui volle essere sepolta)
Intanto il nome; si chiamava così perché la chiesa- a pianta centrale- sorgeva in mezzo ad un cimitero suburbano detto delle pertiche per via dell'uso longobardo di erigere un palo (la pertica, appunto) sormontato da una colomba rivolta dove ere caduto un soldato disperso. Cosa ci è rimasto di questo complesso? Pressochè niente, se non l'incisione settecentesca dell'architetto Veneroni riportata sopra e il cortile adibito ad abitazioni. Tutto venne distrutto nel 1813.

Stessa sorte toccò alla cattedrale ariana di sant'Eusebio, edificata per volere di re Rotari ed intitolata successivamente a sant'Eusebio quando da luogo di culto ariano divenne cattolico con la conversione di Anastasio che da vescovo ariano diventa cattolico, ripudiando l'eresia nel 680.
Nel piazzale delle poste a Pavia si possono intravedere i resti della cripta di sant'Eusebio
La vastità dell'ambiente ci fa presupporre un desiderio di grandiosità che possiamo anche solo immaginare osservando la decorazione dei capitelli .
Il primo capitello ha una decorazione a fibula, molto simile ai rilievi sbalzati sulle armi longobarde; il secondo riproduce foglie d'acqua ( o ali di cicala) e rielabora in modo astratto forme naturali e vegetali. L'incavo  della decorazione è lontano parente delle foglie d'acanto dei classici capitelli corinzi; la rottura con la tradizione  classica è avvenuta, anche se la presenza di pietre colorate incassate nell'architettura dovevano ricreare raffinatezza, dunque armonia, all'insieme.
Evidente è il parallelismo coi castoni delle gemme coeve (si pensi alla legatura dell'evangeliario di Teodolinda , conservato al Duomo di Monza)


E poi Santa Maria Teodote , monastero che sorgeva dove oggi c'è il Seminario. Paolo Diacono, la fonte per la storia longobarda (il suo libro fu redatto a Montecassino quando  tornò dalla Francia, visto che era stato grammatico presso Carlo Magno) ce lo cita e racconta della sua fondazione sotto Cuniperto re (685 -700), che si era invaghito della bellissima Teodote e che rinchiuse in monastero, divenendone badessa.
Cosa è rimasto? Solo i due plutei qui sotto riprodotti, che erano dei tramezzi di marmo che separavano in chiesa la zona dell'altare da quella dei fedeli.
Ecco il primo

Pluteo con grifoni, prima metà del VII sec, marmo cipollino, 174 x 66 cm., Pavia, Museo civico

L'anonimo artista decora la lastra inserendo al centro  due grifoni, figure mitologiche custodi e vigili, che si abbeverano all'albero della vita. La splendida cornice presenta motivi vegetali ripetuti modularmente, ed anche qui il modello è quello presente nei lavori di oreficeria, come le croci longobarde in lamina d'oro.

Ed ecco il secondo
Pluteo con pavoni, prima metà del VII sec, marmo cipollino, 174 x 66 cm., Pavia, Museo civico
Anche qui  una raffinata cornice dai rilievi fortemente bidimensionali che raffigurano piante e uccelli che piluccano acini d'uva  pone in risalto le due figure al centro: due pavoni -simbolo cristiano di perfezione divina- che si abbeverano ad un calice sopra il quale svetta la croce longobarda dai quattro bracci uguali. Ma , .....eccolo l'anticlassicismo ! Se l'arte precedente era simmetria ed ordine, qui non c'è niente di tutto ciò ! A destra , a fianco della coda del pavone, l'artista ha inserito un elemento decorativo, come le spirali poste sul limite della cornice.In questa paura di lasciare spazi vuoti , tipica di tutte le arti figurative agli albori, questo merletto di marmo ci riconcilia con l'arte barbarica che in realtà è capace di belle cose!

sabato 11 ottobre 2014

Friedrich, ecco il romanticismo!


Proprio come l'uomo pio prega  senza pronunciar parola e l'Onnipotente gli presta ascolto, così il pittore di sentimenti sinceri dipinge e l'uomo sensibile riconosce e comprende la sua opera
Kaspar David Friedrich
(1774-1840)


Esiste un legame contingente tra l'arte di Fridrich e la pittura cinese? Sicuramente no, ma se spostiamo la nostra attenzione sulle "dichiarazioni d'intenti" del pittore tedesco e di Tang Hou, teorico dell'arte cinese del XIV secolo, allora ci si accorge come il linguaggio dell'arte possa essere universale e scardinare qualsiasi barriera- geografica  e religiosa-

Mostra il tuo cuore senza riserva
E il tuo pennello sarà ispirato.
Scrivere e dipingere hanno uno scopo comune,
La rivelazione della bontà interiore.
Ecco due compagni
Un vecchio albero e un alto bambù
La mano che li ha tracciati liberamente li ha trasformati;
L'opera è stata compiuta in un istante.
L'incarnazione di un momento unico,
Costituisce il tesoro di cento epoche,
E si prova, nello svolgere questo rotolo, un sentimento
di tenerezza,
Come nel vedere il creatore stesso." Thang Hou

L'unica autentica fonte dell'arte è il nostro cuore, il linguaggio di un animo puro e infantile. Un'opera che non scaturisca da questa fonte può essere solo artificio. Ogni vera opera d'arte viene concepita in un'ora sacra e nasce in un'ora felice, il più delle volte senza che l'artista ne abbia coscienza, da un intimo impulso del cuore. C.David Friedrich, Scritti sull'arte,ed. cons. Milano, 1989

Ma qui rimando allo splendido ed avvincente saggio di Giovanni Peternolli, Caspar David Friedrich e la pittura cinese, studi di estetica 1999 , reperibile in rete e da leggere d'un fiato.

Uomo di poche parole, anche se amico di Schiller e Goethe, figure di spicco per le parole tedesche, Fridrich parlava col pennello ed i colori.
Dalla Croce sulla montagna del 1808 - un'alba che illumina una morte- oggi alla Gemaldegalerie di Dresda

 al Mare al chiaro di luna del 1835/36- un tramonto non troppo metaforico-una delle sue ultime opere, ciò che ci attrae è la supremazia del paesaggio
Ogni opera di Friedrich ha la sua magia, la scelta dunque è difficile.
Ma il Viandante sul mare di nebbia (1817-18, olio su tela, cm. 75x95 ,Amburgo, Kunsthalle)  è una delle più suggestive...

Qui , come in molti altri dipinti, le figure di Friedrich  non hanno volto ; potremmo essere noi i protagonisti dell'opera che , grazie anche alla nitidezza visiva, parla dritta agli occhi, specchio dell'anima. La figura simbolica del viandante, di chi cerca e percorre una strada che non arriva mai alla fine, è nelle nostre corde.
Un passo delle Lettere sulla pittura di paesaggio ,(Lipsia 1835) di Carl Gustav Carus , sembra parlare proprio di quest'opera :" Sali sulla vetta della montagna, contempla le maestose catene montuose, osserva il corso dei fiumi e lo splendore di tutto ciò che ti si offre alla vista, e quale sentimento si impadronisce di te? Quello di una calma preghiera, ti perdi nello spazio sconfinato, tutto il tuo essere viene illuminato e purificato, il tuo io scompare, tu non sei nulla, Dio è tutto"
Anche se in questa opera al centro è presente il viandante, non è lui il protagonista, anzi estraneo al paesaggio; ho sempre pensato che se "L'infinito di Leopardi avesse un corrispettivo visivo, questo dipinto calzerebbe a pennello. La siepe che il guardo esclude lì , le nuvole che mozzano il fiato qui. Ed entrambi, il poeta e il pittore si interrogano sul senso delle cose. Le nostre mille domande vorrebbero risposte che si perdono nelle nebbie.

Ma la vita può essere meno dura nella condivisione.
Ecco allora un dipinto di Friedrich in cui la speranza è accennata.
Caspar D. Friedrich, Le bianche scogliere di Rugen, 1818, olio su tela, cm. 70 x 90,Winterthur, Stiftung Oskar Reinhart
Il vecchio orso proprio in quest'anno sposò Caroline Bommer,  una ragazza di umili origini che aveva quasi la metà degli anni del pittore. Il viaggio di nozze ebbe come tappa l'isola di Rugen, non distante da Greifswald, patria dell'artista.  

Il paesaggio qui dipinto non trova un riscontro reale con quello dell'isola; del resto non era intenzione dell'artista essere "realista" , bensì voleva, attraverso le tre figure in primo piano- particolareggiatissime nelle vesti- e il piano di fondo, creare un abisso invalicabile tra noi e il lontano, fuori dalla nostra portata. La donna a destra , vestita di rosso, è la moglie dell'artista ed il colore allude alla Carità, mentre l'uomo in ginocchio, quasi sporto oltre il baratro, è lo stesso pittore, che , umile, si inchina alla generosità di Caroline.  A destra, con lo sguardo perso verso l'orizzonte, c'è Christian, fratello minore di Caspar, giovane ancora e dunque colmo di Speranza.
Gli alberi sono solo cornice e la linea altissima dell'orizzonte sul mare, dilata anche le nostre aspettative.
Ma la speranza poi, svanisce.
 Mare di ghiaccio (Il naufragio della Speranza) , 1824 (Olio su tela, cm.98 x 128, Amburgo, Kunsthalle) 
Altro naufragio. Ma quello della nave - la Speranza appunto- di William Edward Parry,che partecipò alla prima spedizione al Polo Nord, è solo pretesto per altro naufragio.
La grande lotta della Natura è  dipinta in modo composto : il dipinto è sovrastato da blocchi di ghiaccio- quello al centro e altri due, simmetricamente a sinistra e a destra. Il relitto della nave riusciamo a vederlo solo ad una lettura più attenta perché il pittore  vuol mostrarci che anche nelle tragedie e negli sconvolgimenti atmosferici, un ordine c'è, e lo stupore, che è effetto del Sublime nel suo più alto grado , ci pone in una condizione di ammirazione, riverenza e rispetto di fronte al Creato.

Del resto Kant qualche anno prima, nel 1790 , nella sua Critica del giudizio estetico aveva affermato :" l'impossibilità di resistere alla potenza naturale ci fa conoscere la nostra debolezza fisica ma ci scopre contemporaneamente una facoltà di giudicarci indipendenti dalla natura, ed una superiorità che abbiamo su di essa."

martedì 7 ottobre 2014

La "Deposizione" di Rogier van der Weiden , ovvero il dramma rappresentato.


Stabat Mater dolorósa
iuxta crucem lacrimósa,
dum pendébat Fílius.

Il commovente dipinto ad olio su tavola  (262 x220 cm.) di Rogier van der Weiden oggi si trova nelle sale fiamminghe del Prado a Madrid.
Ma l'artista di Tournai lo dipinse nel 1430-40 per la chiesa di Notre Dame fuori le mura di Lovanio , esattamente per la cappella sponsorizzata dalla Confraternita dei Balestrieri ( si noti la decorazione a finto intaglio posta a coronamento degli angoli, che riproduce  appunto delle balestre) e piacque così tanto che subito tante furono le copie.
Come mai è al Prado? Gli Asburgo di Spagna dalle Fiandre la portarono in dono a Filippo II , grande estimatore della pittura fiamminga, che la trasferì alla fine del Cinquecento all'Escorial. Poi . come è ovvio,passò alle collezioni del Prado.
E chi era Rogier? Allievo di Robert Campin, il grande iniziatore della pittura di Fiandra, divenne personaggio importante e Bruxelles e compì- era moda!- un viaggio in Italia, entrando in contatto con le corti di Milano, Mantova , Ferrara  e con Gentile da Fabriano e Beat Angelico a Firenze.

Ma qui a me interessa ammirare questo dramma sacro.
Il dipinto oggi è lacunoso: si presenta solo la tavola centrale di un trittico di cui si sono perse le tavole laterali (si richiudevano? chissà..) e raffigura , in uno spazio angusto  dieci personaggi. Nonostante la "scatola" lignea, troppo chiusa e occlusiva- quasi a voler simboleggiare il dolore compresso  che ognuno dei personaggi manifesta-tutta la composizione è regolata da precise regole simmetriche e armoniche.
Le morti e le crocifissioni di solito erano rappresentate in verticale : si veda la coeva "Deposizione" di Beato Angelico per santa Trinita a Firenze e oggi conservata al museo di san Marco 
E invece qui lo spazio innaturale e a fondo oro è sviluppato in orizzontale, quasi a voler dare ancor più enfasi al dolore terreno ; ecco in primo piano le ossa , le pietre ed il teschio di Adamo.
Il ritmo è spezzato da due diagonali date dal terreo corpo di Cristo cui fa da contraltare (passio/compassio) la Madonna svenuta e sorretta da Giovanni , posto all'estrema sinistra a cui risponde dalla parte opposta una pia   donna piangente. 
Tutte le altre figure, Giuseppe d'Arimatea che sorregge dalle ascelle Cristo, le pie donne, gli uomini hanno il compito di scandire lo spazio.
E il dolore , a differenza della pittura più dettagliata e naturale di van Eyck -l'altro vero protagonista della grande stagione quattrocentesca nordica!- qui è reso esplicito.
Le lacrime scorrono vere sui volti ; per la loro realizzazione Rogier ha utilizzato gocce di resina trasparente e lasciate  nel loro spessore:la tavola piange, il dipinto trasuda! 
Mai si era vista una Madonna così pallida e piangente e questo biancore è reso ancor più evidente dall'accostamento di colori complementari  della veste rossa di Giovanni con quella verde della pia donna. Il velo bianco copre a malapena i capelli e una ciocca ambrata fuoriesce dal copricapo mentre gli occhi che immaginiamo amorosi sono quasi "deformati" dalle profonde occhiaie. Si noti anche il particolare della mano sinistra di Maria accostato a quella destra e violata del figlio 
O ancora le labbra semiaperte di Maria Maddalena vestita di verde; è come se i singhiozzi fossero stati così laceranti da togliere il respiro
Le mani espressive, i panneggi cartacei, tutti questi dettagli passano poi a Mantegna. Forse Rogier van der Weiden passato a Mantova, qualcosa deve aver passato alla pittura dura del pittore italiano; la vergine piangente del "Cristo in scurto" eccola qua.
Ma qui il dolore ha cancellato con un colpo di spugna tutta la bellezza!