venerdì 20 dicembre 2013

Da Gentile da Fabriano a Filippino Lippi : l'adorazione dei Magi a Firenze

I Magi? Ricchi e saggi re, di cultura e di età diversa.
Chi meglio di loro poteva rappresentare nella Firenze del Quattrocento, così simile all'Atene di Pericle, le casate emergenti, i colti signori, la Chiesa potente?
In questo post mostrerò alcune tra le opere - e sono tante!- elaborate da artisti quattrocenteschi sul tema dell'adorazione.
Si va dall'ancora gotico Gentile da Fabriano al moderno Leonardo, dal ridondante Benozzo Gozzoli al tormentato Botticelli.

Ordine cronologico

1423 Gentile da Fabriano, Adorazione dei Magi, tempera e oro su tavola, oggi Uffizi Firenze, un tempo chiesa di Santa Trinita, sempre Firenze
Ecco, potremmo dire che il pittore marchigiano inauguri una moda : Pallavicino Strozzi, ricchissimo banchiere (in quegli anni il confine tra banchiere e usuraio era piuttosto labile...) , stipula un contratto dettagliato con l'artista a cui richiede l'uso di oro e argento, tanti personaggi, scene che testimonino l'opulenza della casata.
E così il corteo si snoda dalle lunette poste in alto per concludersi a serpentina davanti a noi.
In primo piano a sinistra , la capanna, troppo piccola, si apre a mostrare la sacra famiglia e i re.
Pallavicino Strozzi è l'uomo col falcone ritratto al centro in secondo piano insieme al figlioletto Lorenzo. Tutto intorno il corteo del quale fan parte animali esotici , leopardi, scimmie, cammelli e uomini riccamente addobbati . Lo sfarzo rifletteva la ricchezza della casata e l'arte era strumento di scalata sociale. Se un uomo come Palla Strozzi, i cui avi erano mercanti di stoffe, poteva permettersi ciò, la sua banca era solida , Pubblicità...
Lo stile è ancora legato alla vecchia scuola gotica; niente prospettiva, delle belle linee di contorno nette, colori senza alcuna sfumatura.

1459 Benozzo Gozzoli, Il corteo dei Magi in Palazzo Medici Riccardi, affresco



Ormai la famiglia Medici domina su Firenze, si è fatta costruire da Michelozzo un palazzo-fortezza, nel suo interno c'è questa cappella privata sulle cui pareti si snoda il corteo che da Ferrara a Firenze aveva portato l'imperatore bizantino Giovanni Paleologo insieme a Sigismondo Malatesta, Galeazzo Maria Sforza in occasione del Concilio del 1438/39 per tentare una riconciliazione tra le due Chiese, d'oriente e d'occidente.
I Medici in questa occasione sono i protagonisti assoluti.
In un paesaggio da favola e idealizzato, Lorenzo, Piero e Cosimo il vecchio , sulle loro eleganti cavalcature  si apprestano alla grotta. Oltre al loro, altri personaggi si presentano, dal filosofo neoplatonico Marsilio Ficino al Pulci allo stesso Benozzo Gozzoli.

Nonostante non vi sia una corretta prospettiva, la lezione innovativa di Masaccio è recepita da Benozzo attraverso una definizione spaziale dei corpi - dei volti soprattutto- grazie al chiaroscuro e all'elegante linea di contorno

1475 Botticelli, Adorazione dei Magi, oggi agli Uffizi, originariamente nella cappella funeraria della famiglia Del Lama in santa Maria Novella

Qui qualcosa è cambiato.
La visione è frontale e la sacra famiglia, in posizione sopraelevata rispetto agli altri personaggi, riceve doni e omaggi dai re. Questa iconografia sarà poi ripresa da Leonardo ; Ghirlandaio e Filippino Lippi.
Zanobi del Lama, sensale dell'arte del cambio e uomo di corte della famiglia Medici, chiede al pittore emergente, già con contratto esclusivo coi signori di Firenze, di rappresentare se stesso insieme agli altri.
Ancora una volta i re , di tre età diverse (le età dell'uomo) sono Cosimo il vecchio (il personaggio vestito di nero, nell'atto di fare offerta a Maria ) , Piero il gottoso e Giovanni , il più giovane.
Lorenzo, il futuro Magnifico. è colui dietro Cosimo, quello col mantello bianco. Dalla parte opposta , col vestito nero, c'è Giuliano che tre anni dopo troverà la morte nella Congiura dei Pazzi
La capanna lascia il posto ad un edificio in rovina, già raffigurato dai pittori fiamminghi, e che allude alla ricostruzione della Chiesa grazie al nuovo nato.
Un pavone, simbolo dell'immortalità (le sue carni erano considerate immarcescibili) è appollaiato sulle pietre, proprio sopra il personaggio che guarda, imbronciato, verso di noi.
E' Botticelli, il maestro di un cromatismo prezioso e di velature traslucide.

1481 /82 Leonardo, Adorazione dei Magi, Galleria degli Uffizi
Per i monaci agostiniani della chiesa di san Donato a Scopeto, Leonardo riceve l'incarico di dipingere in due anni e mezzo, una pala d'altare che raffiguri l'adorazione dei magi.
Leonardo lavora all'opera, partendo dallo schema dell'amico Botticelli : la sacra famiglia è centrale, tutto intorno il vero tema dell'epifania. Una pianta di alloro, simbolo di trionfo ed una palma, preannuncio del martirio, fanno da cornice a uomini e ad un paesaggio simbolico.
L'architettura in rovina simboleggia il declino dell'ebraismo e del paganesimo e la battaglia sul fondo è l'umanità nel caos senza la legge di Cristo.
L'opera , non finita sia per la partenza di Leonardo per Milano, sia per lo scontento dei committenti (troppo diversa rispetto a altre tavole!) , ci permette di osservare il "metodo Leonardo" . Il disegno attentissimo, legato ancora ad una corretta prospettiva, non è calcato, proprio perché nella fase successiva, quella della stesura dl colore, avrebbe permesso uno sfumato a dispetto della linea di contorno che fino ad allora era la norma.
Firenze, Gabinetto dei disegni
Parigi, Cabinet des dessins
La battaglia, i cavalli, il caos in secondo piano. L'ordine in primo piano

1485/88 Domenico Ghirlandaio, Adorazione dei Magi degli Innocenti, Spedale degli Innocenti a Firenze

 Meraviglioso Domenico delle Ghirlande! Per gli orfanelli di Firenze, richiesto dal potente priore dello Spedale, Domenico Tesori, il pittore elabora una scena quasi da favola.
La Madonna e il bambino sono posti al centro, sotto una struttura semplice che si apre ad un paesaggio infinito e spazioso.
San Giovanni Battista (l'inizio, con il primo sacramento) e Evangelista (la fine, l'Apocalisse) , mostrano due bimbi feriti, gli innocenti. E il tema cruento è ripreso nelle concitate figure del fondo.
I re Magi sono probabilmente il ritratto dei membri della potente Arte della Seta; il committente è effigiato dietro la croce sorretta dal Battista. Al suo fianco guarda verso di noi lo stesso pittore.
Roma, meravigliosa, è sul fondo. La riconosciamo dalla Piramide Cestia, dal Colosseo, dalla Colonna Traiana.

E poi l'ultimo
1496 Filippino Lippi, Adorazione dei Magi, Uffizi Firenze
I frati agostiniani di san Donato a Scopeto, ripiegano, nel 1496, sul botticelliano Filippino, che , con una grazia ormai "spezzata" dai tormenti di un secolo che si chiude in maniera drammatica, mette in scena una sgargiante epifania.
Il messaggio è meno "intellettuale, più popolare e diretto, anche perché qui bisogna celebrare il ramo "popolare" dei Medici.
I tre re sono Lorenzo di Giovanni (il vecchio), Lorenzo e Giovanni il popolano (il personaggio vestito di verde). In primo piano a destra è raffigurato Piero del Pugliese, intermediario tra i monaci e i medici, strano personaggio, amante di un'arte "anticlassica".
Ma questa è un'altra storia.

martedì 17 dicembre 2013

Scene di famiglia in un interno ovvero La famiglia Bellelli di Degas

1858, estate.
Degas ventiquattrenne arriva a Firenze, città che ancora gli era ignota.
E' ospite dello zio Gennaro Bellelli, esule da Napoli.
I rapporti tra i due sono freddi, formali, talvolta  difficili.
La zia Laura, insieme alle figlie Giovanna e Giulia, è ancora a Napoli, trattenuta dalla morte del padre Hilaire Degas, avvenuta il 31 agosto.
Ritratto di Hilaire Degas, 1857, olio su tela, datato in alto a destra Capodimonte 1857, Parigi, Museo d'Orsay
Nell'attesa della zia , un pittore a Firenze che fa? Guarda quadri, chiese, frequenta il Caffè Michelangelo e entra in contatto con i futuri macchiaioli.
Ma questa è altra storia...

Finalmente zia e cugine arrivano a Firenze, nel bell'appartamento in piazza Indipendenza.
E finalmente Edgar comincia a concepire la sua opera.
Si badi bene. Degas, che NON si considererà mai impressionista, concepisce la pittura come esercizio, lavoro assiduo, disegni. Della improvvisazione non sapeva che farsene.
Costringe zii e cugine a sedute di posa, di cui sono testimonianza i tanti disegni (ecco, anche questo lo allontana dagli impressionisti che non utilizzavano il disegno)
Giovanna Bellelli, carboncino nero su carta, cm32,6 x 23,8, Parigi, Cabinet des Dessins, Museo d'Orsay
Giulia Bellelli, carboncino nero, acquerello diluito, bianco su carta crema, cm. 23,4 x 19,6 , Parigi, Cabinet des dessins , Museo d'Orsay
 
Laura Bellelli, mina di piombo e tracce di pastello verde su carta grigia, cm. 26,1 x 20,4 , Parigi, Cabinet des dessins, Museo d'Orsay
Gennaro Bellelli, Penna, cm. 27,2 x 22,7, Parigi, Cabinet des dessins, Museo d'Orsay

Qui  si propongono solo alcuni disegni tra i tanti meticolosamente creati, con tecniche non sempre uguali.
Sappiamo , dall'epistolario Edgar- Auguste (il padre) che nel marzo 1859, quando il pittore lascia temporaneamente Firenze per fare ritorno a Parigi, che il dipinto non è affatto compiuto e nel 1860, al ritorno in Toscana, lavora ad altri schizzi e soluzioni.

Ed ecco la famiglia Bellelli

1858-1867, olio su tela, cm. 200 x 250, Parigi, Museo d'Orsay
Considerare questo dipinto un semplice ritratto è riduttivo. Lo stesso Degas parla di un "tableau" e ogni personaggio recita un ruolo.
La zia Laura - la prediletta tra le sorelle del padre- , di salute fragile, di indole malinconica, è ritratta distaccata ; tante sono le lettere che lei scrive al nipote e in tutte si lamenta che "vivere accanto a G., di cui tu conosci il detestabile carattere, mi porterà alla tomba" (lettera del 20 giugno 1859, da Firenze a Parigi, collezione privata)

Ecco che  tutti i pezzi sono assemblati. In un interno borghese si mette in scena la famiglia
Gennaro Bellelli siede in poltrona , attende alle sue occupazioni, volge le spalle a noi , quasi a accentuare la sua condizione di esule.  In basso a destra il cagnolino attraversa la stanza   e difatti non vediamo né le zampe anteriori né la testa. ( In questo, nella capacità di cogliere l'attimo, Degas è molto vicino alla pittura di Manet)
Sulla mensola del caminetto sono ben disposti una candela, ceramiche decorative, un orologio.
 Uno specchio riflette la finestra e la verde tappezzeria ( quanta attenzione fiamminga!)
Al centro, in una posa poco composta, Degas rappresenta la piccola Giulia, sua cugina preferita, rivolta verso il padre, che aveva un debole per lei
E poi a sinistra, spicca la figura della zia Laura, in lutto stretto, appesantita dalla terza gravidanza, triste e pensosa. Sembra trovare conforto solo ricordando il padre (presente nella sanguigna incorniciata, regalo del nipote pittore) e abbracciando Giovanna , che composta guarda verso di noi.
L'altra mano poggia sul mobile
Studio di mani, Parigi, Museo d'Orsay
In questo particolare si nota la perfetta tecnica, quasi accademica , di Degas, preciso - verista- nella rappresentazione dei dettagli anatomici, più libero nei panneggi che gli servono per creare giochi cromatici e luministici.
Così una composizione che sembra una fotografia , in realtà è perfettamente bilanciata e studiata. E
i rimandi a Goya (vedi La famiglia di Carlo IV, 1800, olio su tela, Prado Madrid) , sono evidenti anche nell'introspezione psicologica dei personaggi.

Degas non era stato in Spagna, ma conosceva la pittura di Goya attraverso l'amico Léon Bonnat, pittore quotato in quegli anni, che aveva vissuto a lungo a Madrid.
Il parallelismo più stretto è però con una stampa di Daumier , Un proprietario, pubblicata anni prima, esattamente il 26 maggio 1837 sulla rivista satirica Le Charivari
Nell'Ottocento queste stampe litografiche erano spunto per molti artisti, che attingevano alle immagini anche per essere "più popolari"

Ma questo grande  Gruppo di famiglia in un interno , per citare il film di Visconti, riesce a  entrare nelle pieghe di una famiglia borghese dell'Ottocento come un romanzo di Balzac
(Burt Lancaster e Visconti sul set del film del 1974)

lunedì 9 dicembre 2013

Il potere delle immagini : la figura di san Francesco

Quando il poverello di Assisi morì nel 1226, non pensava di diventare così "popolare", anche se ben due papi riconobbero la sua regola.
E quando Dante nel suo canto XI del Paradiso descrisse probabilmente con estrema fedeltà il carattere, le scelte forti, gli episodi di san Francesco, forse sapeva già che vincente sarebbe stato il ritratto delineato da Giotto, non il suo.
Prima però altri due artisti ci hanno lasciato un'immagine di Francesco
La prima in assoluto è la tavola del 1235 di Bonaventura Berlinghieri (chiesa di san Francesco a Pescia) e, chissà, magari il pittore incontrò il santo stesso
Con un linguaggio ancora bizantino, il pittore inserisce al centro della tavola dorata la figura del santo che mostra le stimmate; ai lati sei episodi - due in vita, quattro post mortem- miracolosi.
Il volto pallido è incorniciato da una barba curata e il chiaroscuro accentua la sofferenza .
Qualche anno dopo (siamo nel 1277 circa) Cimabue, nella Basilica inferiore di Assisi, dipinge forse il ritratto più realista:
le orecchie a sventola, le labbra carnose, una linea di contorno marcata, insieme alle lumeggiature - cioè quella tecnica usata qui per schiarire ulteriormente le zone in luce- , contribuiscono a trasmettere allo spettatore la semplicità dell'uomo e l'essere "uno di noi".  Il saio inoltre, stracciato proprio in corrispondenza del costato, mostra la ferita e crea quel parallelismo tra la passione di Cristo e la "compassione" di Francesco.

E poi arriva lui, Giotto. Solo un borghese, poi ricco eccome! , poteva costruire con così tanta attenzione un'immagine di Francesco (anch'egli borghese)  che reale non è, vincente sì.

Ad Assisi il partito francescano "edulcorato" aveva vinto.
E' del 1288 la bolla papale di Niccolò IV - primo papa francescano- che decreta che le abbondanti elemosine dei pellegrini siano convogliate per la decorazione della Basilica di Assisi che diventa, a tutti gli effetti, cappella palatina.
Giotto è funzionale a ciò.
E' il nuovo, è bravo, è diretto e semplice. E' gradevole (si parla delle sue opere)
Dal 1295 circa , per 3 anni, affresca nella basilica superiore 28 riquadri che raffigurano la vita del santo ( si rimanda ad altra pagina del blog) e a poco a poco l'immagine stessa di Francesco cambia. La fonte è la Legenda maior di san Bonaventura e in un racconto che parte in senso orario da destra , sul muro della campata vicino al transetto per terminare a sinistra, assistiamo rapiti alla trasformazione di Francesco da ricco rampollo di famiglia a santo "povero ma bello".
Qui, ad eccezione di questo episodio ,il secondo- Il dono del mantello- si inseriranno quelle immagini che trovano riscontro nel canto dantesco

Qui, con linguaggio diretto e semplice, Giotto inserisce esattamente al centro Francesco (la sua testa è il punto di congiunzione delle diagonali) . Accanto a lui la sua cavalcatura (quando mai si era visto un animale in primo piano?) ha ampio spazio per far capire sin da subito la natura "ecologista" di Francesco e a destra il cavaliere ormai povero riceve il ricchissimo mantello double face che attesta la classe sociale del paffuto Francesco.
Anche lo sfondo fa presagire le scelte di Francesco: a sinistra la città , ricca come la campagna con diversi alberi, a destra la chiesa, che deve essere povera. E Francesco va verso quella direzione.

Nel quinto episodio La rinuncia agli averi , la cesura tra  Pietro di Bernardone e il figlio è enfatizzata dallo spazio mediano vuoto, riempito solo in alto dalla mano di Dio che approva la scelta di Francesco
Che maestria nella descrizione dell'irato  padre, trattenuto a stento da un vicino ( e il giallo e il rosso delle loro vesti è funzionale al nostro occhio) , ma pronto a raccogliere le vesti del figlio! E quei bambini a sinistra che tra le pieghe delle vesti forse nascondono sassi per  colpire quello che ormai è "il matto del villaggio"!
Qui san Francesco non è più mostrato in carne ; la sua scelta di povertà  si legge nelle costole segnate con una linea verde, colore che i pittori usavano come base per l'incarnato.

E ancora, Francesco di fronte a papa Innocenzo III. La scena si svolge all'interno di un palazzo , raffigurato in una prospettiva intuitiva sì , ma che apre la via a quella quattrocentesca.
Il santo è sì più in basso rispetto al papa, ma è al centro. più grande rispetto agli altro "attori"

Altro papa , Onorio III, altra conferma
Qui lo spazio è ancor più compiuto e i due protagonisti, il papa attentissimo e il maturo Francesco, colloquiano da pari a pari. Le vesti di Francesco cadono eleganti su un corpo di cui non vediamo magrezza.

Due anni prima di morire Francesco ricevette sul monte della Verna , le stimmate. San Bonaventura descrive l'episodio della rivelazione di Dio sotto forma di cherubino. Così lo rappresentò per primo Bonaventura Berlinghieri, così fa pure Giotto.
Sempre lui , il santo, al centro, posa statuaria e natura che fa da contorno al miracolo. Il resto sarebbe pleonastico. E Giotto lo toglie.

La predica davanti al Sultano è altro episodio riportato da Dante
Come rappresentare l'oriente? con lo sfarzo delle architetture, del trono decorato in oro , delle vesti elaborate del sultano. Francesco è sempre al centro, protagonista incontrastato.
E poi la morte

Qui la scena è piena , non uno spazio vuoto. E qui, al centro in basso, punto visuale perfetto per lo spettatore, giace la composta figura del santo. Tanti sono coloro che lo piangono, la folla preme per poter dare l'ultimo saluto a Francesco che è già in cielo.
(Giotto ridipingerà la morte del santo nella Cappella Bardi in santa Croce a Firenze  nel 1330 con una scelta di "pulizia" e con poche persone presenti, ma quanta espressività nei volti dei frati!)
 
 
Ma lo sposalizio con madama povertà? Tema troppo scomodo e forte per essere presentato nella Basilica superiore, (e invece nel canto di Dante è il nodo) si trova in forma di Allegoria nella vela della volta sull'altare della Basilica inferiore.
Immagine complessa ( che l'abbia dipinta Giotto o sua scuola è ininfluente al nostro discorso e lo stesso vale per le altre raffigurazioni) , vede al centro Gesù che presenta a Francesco madonna Povertà che ha i piedi tra i rovi ( le difficoltà della vita) e la testa cinta di un roseto.
Francesco le porge l'anello che lei a sua volta  passa alla Speranza in verde e alla Carità in rosso , la quale regala un cuore.
In basso a sinistra l'elemosina del mantello, mentre a destra la Superbia, l'Invidia e l'Avarizia sono rappresentate dai tre giovani, ostili alla Povertà.
In basso al centro due bambini molestano , chi con un sasso, chi con dei bastoni, la Povertà ( si ricordino i due bambini nell'episodio della rinuncia agli averi)
 
 



domenica 24 novembre 2013

Van Eyck, ovvero l'invenzione della pittura ad olio . Il fidanzamento degli Arnolfini

Olanda. Solo in una terra del Nord, con un tempo di luce minore e diverso rispetto alle nostre latitudini, poteva nascere la pittura ad olio.
E solo la ricca borghesia quattrocentesca , di queste terre e della nostra Toscana, poteva approvare una pittura , come quella ad olio, versatile e adatta a celebrare ogni bene materiale.
E qui c'è Van Eyck, che nella sua vita (nacque forse intorno al 1390 a Maastricht e morì a Bruges nel 1441)  ha "inventato" la pittura ad olio e ci ha regalato opere memorabili.
Prima opera da lui firmata fu il Polittico dell'Agnello mistico (1432) , vera e propria macchina scenica che si apriva ai fedeli nella chiesa di san Bavone a Gand in minuzie preziose ed in giochi prospettici che attestano una conoscenza delle sperimentazioni italiane
L'episodio centrale, L'adorazione dell'Agnello mistico , secondo quanto L'Apocalisse tramanda, l'Agnello vivo e sanguinante è in piedi sull'altare e un'umanità ordinata fa corona alla manifestazione.
I dettagli, curatissimi, raccontano gli esordi di van Eyck come miniaturista e la sua attenzione misurata va dai profeti raffigurati coi libri aperti in mano alla torre dietro l'altare, il campanile di Utrecht
Passano due anni
Il ricco banchiere lucchese Giovanni Arnolfini è a Bruges con la futura moglie Giovanna Cenami , ricca pure lei, non bella pure lei.
L'arte a quei tempi era strumento per consolidare alleanze e così messer Arnolfini che godeva di una posizione di prestigio presso la corte di Filippo il Buono , chiede ad un artista del luogo un ritratto sontuoso e nello stesso tempo sobrio.
E così all'interno di una camera nella quale spicca un purpureo letto a baldacchino che contrasta ancor più per l'accostamento alla  veste verde di Giovanna, i protagonisti si danno la mano.
Al centro uno specchio convesso (e la cornice riporta le stazioni della via Crucis) riflette uomo, donna e altre due persone, una delle quali sicuramente il pittore (Joannes de Eyck fuit hic 1434 ), testimoni forse della promessa di matrimonio tra i due.

Lo specchio, che invenzione qui! Non solo ci mostra altri due personaggi nella stanza, ma fa intravedere un albero fiorito (un ciliegio?) nel giardino e un soffitto a cassettoni che amplia lo spazio di questa scatola prospettica.
(E certo che duecento e più anni dopo Velazquez se ne rammenta per le sue Meninas...)
Ogni oggetto all'interno della stanza ha una sua ragion d'essere: dal cagnolino vicino alla donna, che dovrà dunque essere fedele al coniuge, alle arance sul davanzale, costoso frutto del sud che alludeva anche al pomo proibito - e quindi al fuggire il peccato-.
O ancora dalle vesti ricchissime (pelliccia di visone per lui, ermellino nelle ampie maniche del vestito di Giovanna, verde come la fertilità che si augurava alla coppia) al lampadario con solo una candela già consumata, allusione chiara allo scorrere del tempo
E sulla testata del letto non può mancare, insieme ad una santa intagliata nel legno, la scopina scacciaguai!
 
 

Ma l'arte, che è imitazione della Natura, per un fiammingo è realismo. E così i due personaggi sono ritratti come realmente erano: lui col naso pronunciato e le narici dilatate, lei paffuta e vanitosa.
Per fare questo la pittura ad olio era perfetta: tante sfumature, una resa cromatica e luministica eccellente che ci permette di godere della diversa consistenza dei materiali, dall'ottone del lampadario alle venature del parquet.
Qualche decennio più tardi il nostro "nordico" Antonello da Messina aggiungerà ai preziosismi fiamminghi ,lo spazio italiano.
Ma questa è un'altra storia







 

martedì 19 novembre 2013

Il paesaggio con zingara ovvero La Tempesta di Giorgione

Come per tutte le opere "fondanti" , anche La tempesta è mistero.
Poco si sa se non che è stata dipinta dal pittore di Castelfranco Veneto intorno al 1506/08, che è un olio su tela (sì , tela e non tavola!) , che è piccina -82x73 cm e che è alle Gallerie dell'Accademia a Venezia. Il resto sono ipotesi, congetture, divertimenti..
Nella più antica descrizione del dipinto, lasciataci da Marcantonio Michiel, mercante veneziano, nel 1530 (testimonianza però scoperta solo nell'Ottocento) , si parla di "el paeseto in tela cun la tempesta, cum la cingana (zingara) et soldato de mano de Zorzi da Castelfranco". Egli lo aveva ammirato a casa di Gabriele Vendramin, altro ricco lagunare.
Dunque attribuita a Giorgione grazie a questa Notizia.
Del resto l'unica opera certa del pittore di Castelfranco è un frammento di affresco già al Fondaco dei Tedeschi degli inizi del Cinquecento; gli altri capolavori- la Venere di Dresda, I tre filosofi, e appunto questo quadretto, sono stati a lui attribuiti attraverso menzioni e non documenti certi.

Ma cosa vi è qui raffigurato?
Non esiste un'ipotesi più corretta delle altre, sono solo supposizioni, il che rende ancor più "magico" il dipinto.
C'è chi, come Rudolf Schrey, in uno studio dei primi del Novecento, propose un soggetto tratto dalle Metamorfosi di Ovidio e qui vide Deucalione e Pirra raffigurati; chi, come Wickhoff , sempre negli stessi anni, associò l'opera alla Tebaide di Stazio , chi invece di recente (Salvatore Settis) ha parlato di Adamo ed Eva cacciati dal Paradiso, notando una somiglianza stringente con un rilievo di Amadeo del 1472 posto sul mausoleo di Bartolomeo Colleoni a Bergamo
Ed effettivamente la donna nuda e il bambino da una parte, l'uomo con la lancia dall'altra, hanno una stringente somiglianza con La tempesta.
Però Adamo ed Eva cacciati sono sempre raffigurati entrambi nudi, in tutte le stampe coeve.
L'ipotesi ultima che ha preso piede- forse un po' romantica- è che questo mirabile dipinto sia il primo quadro libero della storia dell'arte.
E' un paesaggio, perché il paesaggio la fa da padrone: dalla città in secondo piano, al di là del fiume, al cielo col fulmine, dalle rocce agli alberi. Le figure, che ci siano o no, sono un contorno.

Ma questo paesaggio come fu dipinto? Ecco la tecnica innovativa di Giorgione, quella che noi si chiama "pittura tonale". In cosa consiste? Intanto nell'uso di un nuovo supporto, la tela di lino, più versatile , più elastica per supportare i colori ad olio rispetto alla tavola di legno, più adatta all'umido clima di Venezia.
Poi l'uso di toni di colori  sfumati per dare l'idea di vicinanza/lontananza, reso ancor più evidente dall'abolizione , qui, come nelle altre opere di Giorgione , del blu.
Via il blu! E' un colore freddo , che avrebbe tolto equilibrio all'opera, tutta giocata su un'armonica distribuzione del colore e su un'idea evocata di leggerezza ribadita da una tela senza imprimitura.
In sostanza il colore non è steso sulla tela preparata e immersa in un bagno di colla , ma lasciata così. leggera, senza neppure il disegno preparatorio.
Insomma, Giorgione dipinge al tratto, senza ripensamenti, e se sbaglia dipinge sopra .
 
Secoli dopo, guarda caso, coloro che riscoprirono l'arte di Giorgione, pittore moooolto più attento al colore che non alla forma ,anche se le forme sono splendide !, furono Manet e Monet
Forse che la Colazione sull'erba di Manet non parte dai pensieri sulla potenza d'equilibrio del verde?
 
 
 
E forse che la serie delle Cattedrali di Rouen di Monet non sia il trionfo del colore e della luce dunque? Perché questa è la pittura
 

 

martedì 29 ottobre 2013

Brunelleschi uomo nuovo

Quando nel 1401 l'arte di Calimala bandì il concorso per la seconda porta del Battistero di Firenze (il bel san Giovanni) e diede un anno di tempo agli artisti per produrre il tema  del Sacrificio di Isacco , chissà se si era resa conto che sarebbe iniziata una stagione incredibile per Firenze!
Le due formelle, di Filippo Brunelleschi e Lorenzo Ghiberti - a cui andò la vittoria- raccontano la stessa vicenda con linguaggi diversi
La prima, di Filippo, inserisce le figure realistiche in uno spazio funzionale all'azione : c'è un primo , un secondo e un piano di fondo, ma la natura è ininfluente. Il nostro occhio deve essere carpito dalla forza quasi erculea di Abramo pronto a sgozzare il figlio e l'angelo non è una creatura eterea ma con altrettanta forza afferra la destra di Abramo.
Tutto il resto- asino, servitori (in basso a sinistra il cavaspino di ellenistica memoria) , montone fuoriescono dai bordi

La seconda, più elegante e con una lettura lineare , ferma con grazia i gesti studiati dei protagonisti, il panneggio è classico, il nudo di Isacco statuario.

Entrambe attestano un rapporto nuovo con l'Antico.
Ma...
Ma se Ghiberti  si sentiva l'erede di Giotto e Nicola Pisano e il continuatore del tardo Trecento, Brunelleschi sa che quest'ultima fase della storia della sua città è di involuzione e solo Roma può permettergli di ritrovare una naturalità espressiva  che era andata perduta nei rigori liturgici ed iconografici dell'arte bizantina e negli arzigogoli gotici.

E così dal 1402 Brunelleschi intraprende viaggi, chiamiamoli pure di formazione, a Roma e torna a Firenze con la consapevolezza di essere un uomo nuovo .
Cosa significa? Difendere la professionalità dell'architetto contro il vago "magistero" dell'artefice e affermare la priorità della tecnica sulla perizia del mestiere ( e tutto questo passa ad Alberti che progetta e quasi non si cura delle realizzazioni delle sue opere)

Dal 1418 a Firenze è un fiorire di capolavori brunelleschiani
Dalla armoniosa facciata per lo Spedale degli Innocenti , dove tutto è misurato secondo il quadrato (altezza della colonna uguale intercolumnio uguale distanza tra colonna e muro uguale altezza della comoda scalinata )
a San Lorenzo e la Sagrestia vecchia, Santo Spirito e la cupole di santa Maria del Fiore (e ne abbiamo dimenticati tanti ...)
Il rapporto di vuoti e di pieni che deve ingentilire il volto  di questa istituzione tanto cara ai fiorentini ( lo Spedale era ed è un brefotrofio) ben è misurato dalle arcate ariose tra le quali i tondi coi bimbi in fasce , opera di Andrea della Robbia, creano una bella macchia di colore insieme al nitido intonaco e alla pietra serena



La stessa armonia si misura negli interni spaziosi e luminosi si San Lorenzo e Santo Spirito.
La luce entra nelle chiese in modo uniforme, non ci sono più zone il penombra come nelle chiese romaniche o luoghi in cui la luce si rifrange in mille colori, riflessa dalle vetrate gotiche.
La luce compiuta, solare, quasi allegra e "ariosa" ricorda che alla preghiera e a Dio ci si accosta per scelta e per gioia

E addirittura questo slancio "positivo" verso l'alto è reso ancor più evidente nella creazione del "dado brunelleschiano" , sorta di pulvino, elemento di raccordo tra il capitello delle colonne e le arcate.
E la luce ancora dall'alto si irradia ad ombrello nella cupola a dodici spicchi della Sagrestia nuova di San Lorenzo
Qui,  Filippo prende le misure per il suo capolavoro.
La chiesa di santa Maria del Fiore necessitava di copertura e Brunelleschi NON si pone il problema di continuare il progetto di Arnolfo ,ma di CONCLUDERLO
Sappiamo che fu una sfida; le maestranze in grado di costruire un ponteggio che partisse da terra non c'erano più, quindi Brunelleschi deve PENSARE DIVERSO e dovrà sostituire ad un'esperienza collettiva- il cantiere medievale- un'esperienza individuale, la sua.

Come costruirla senza centine? Coi mattoni a spinapesce di romana memoria e con la doppia calotta (chissà se di spunto  fu per lui la doppia calotta del Battistero..)
E la doppia calotta - la cupola interna che sostiene quella esterna- , le scale concentriche che partono dall'enorme tamburo e che si costruiscono insieme alla cupola che a poco a poco sale, servono a suddividere il peso della massa muraria ma anche a differenziare la forma
Sappiamo infatti che all'inizio, nel 1420, Filippo aveva previsto una calotta a tutto sesto.
In fase di costruzione cambia idea.
La cupola autoportante sarebbe stata  meno pesante  con gli otto spicchi a sesto acuto , raccordati alla lanterna , non elemento decorativo ma "chiave di volta" , che raccoglie tutti i costoloni della cupola stessa


Il risultato finale è sotto gli occhi di tutti i fiorentini. Non puoi perderti a Firenze nel dedalo delle viuzze medievali. Basta alzare gli occhi e, eccola lì.
L'hai trovata